lunedì 6 novembre 2017

Attila: il racconto diventa epopea


L'esperienza mitica ha i suoi modi di reagire alla catastrofi.
Gli uomini allora erano in grado di vedere le cose nobilmente.
Il racconto diveniva epopea.
La grande epopea della Caduta dei Nibelunghi riflette a suo modo l'invasione degli Unni di Attila, il "Flagello di Dio".
La storia ufficiale opporrà forse alle orde mongole la vittoria romana ai Campi Catalaunici, ma Attila della leggenda, signore di Gog e di Magog rimane assai più imponente, anche nel suo silenzioso uscir di scena, che non Genghiz Khān e Tamerlano con le loro conquiste storiche e le loro piramidi di teschi.
La sua parte è statica, la classica parte dell'imperatore mitico: come Teodorico, Artù e Kay Khusraw, Attila è l'immobile re degli scacchi, attorno al quale si muovono tutti gli altri.
La storia dei Nibelunghi ci mostra come il pensiero mitico trattasse le crisi: è la Nemesi che alla fine distrugge i guerrieri germanici.
Anche Attila, "re Etzel", soffre, senza perdere l'autorità del conquistatore; suo figlio muore per mano di Hagen, ultimo della schiatta peccatrice, il quale, fatto prigioniero, viene ucciso dalla madre furibonda, a sua volta trafitta da Hildebrand, che si è riconciliato con il conquistatore e che così porta il dramma alla catarsi.
L'unno Attila e il goto Teodorico, alleati nel racconto, rimangono a piangere assieme la morte di grandi eroi.
Non c'è più odio, non c'è terrore, se non per l'agire del fato.
Tratto da "Il mulino di Amleto" di de Santillana e von Dechend

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